La mia Marina nella mia Catanzaro: ricordi, sogni, progetti

di Franco Cimino*

Da quando vivo al della Città alta, se possiamo chiamarla così, io scendo a Marina, con meno frequenza giornaliera di quando insegnavo al locale Liceo delle Scienze Umane. E, però, non perdo ogni momento in cui le diverse condizioni me lo consentono. A Marina ci sono luoghi fermi nella memoria del cuore. Anche quelli che la memoria della mente trova in contrasto con gli occhi che li guardano, oggi trovandoli così mutati, alcuni quasi stravolti o deformati, altri addirittura scomparsi sotto gli abbattimenti feroci o le coperture stolte. Una sorta di rovine belliche. In fondo Marina, o il quartiere a mare come lo chiama qualcuno, da sempre del suo nascere è stata portata in guerra. Ovvero, ha subito il saccheggio dei generali della guerra contro la Bellezza, ché in guerra essa non vi è andata mai, neppure quando avrebbe dovuto.

O quando avrebbe dovuto continuarla dopo quel sussulto “ autonomistico”, dei primi anni settanta, che pure io, ragazzino con i calzoncini corti, non avevo condiviso. Anche per l’acceso amore per la Democrazia Cristiana, che allora mi catturò in un legame mai venuto meno. Si chiamava l’Ancora quel movimento dal basso, che si sciolse subito dopo le elezioni con quel deludente( così fu erroneamente considerato allora) risultato elettorale che gli assegnò solo due consiglieri comunali, quasi immediatamente confluiti in un partito, non però il mio. I luoghi, quindi. Li accarezzo ogni qualvolta, fosse anche per dieci volte di continuo, li percorro. Con le gambe e con quel tutto di me carico di passione.

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E oggi di nostalgia, ché nostalgia non è il rifugio triste di ciò che siamo stati e non possiamo essere più, quello del sottile rimpianto di quel che abbiamo avuto e non abbiamo più , che avremmo potuto avere e non abbiamo avuto, che avevano e ci è sfuggito. Nostalgia non è il mare delle cose perdute. Ovvero, l’utopia rovesciata, che corre all’indietro e non la puoi vedere fino in fondo. Ovvero, ancora, il sogno frantumato sulla spiaggia e che vorresti oggi ricomporre cercando i pezzi sotto la sabbia. Nostalgia è altro. Una sola cosa. È il recupero di valori che sono andati perduti. Ovvero, il ripristino di ogni cosa che avesse un valore. Buono sempre perché stabile. Fermo, perché nessun vento di questa travolgente modernità tecnologizzata può smuovere. Il valore del sentimenti, in cima a tutto.

Il volersi bene, cioè, condizione imprescindibile dell’Amare. Il volersi bene tra persone, tutte. Anche quelle che erano antipatiche o verso le quali si nutriva un qualche risentimento. Un volersi bene tra “ paesani” per non dire di quel contatto ravvicinato che garantiva “ a ruga”, lo spazio fisico breve, quasi sempre rettangolare o quadrato, chiuso. Qui anche l’invidia veniva mitigata o resa non dannosa, per via di quella solidarietà vera che portava gli uni e altri a fare a gara nel soccorso del vicino in difficoltà. Il volersi bene, in famiglia, nel quale lo sconfinato amore dei genitori verso i figli, contagioso tra fratelli, educava al rispetto verso gli adulti, i vecchi in particolare, al culto della madre, all’onore verso il padre.

Volersi bene tra amici, in cui la lealtà era più che un giuramento, come la parola data, o l’impegno a essere l’uno per l’altro, erano molto più che un contratto dal notaio. Il volersi bene, nella vita e fino alla morte, dove quest’ultima aveva un valore che andava oltre la paura di subirla, oltre il dolore che procura una perdita, ché la morte è la culla dei ricordi e il mare quieto dove ritornano i nostri cari nel nostro presente.

E ci fanno compagnia. Volersi bene, come cercare la Bellezza ovunque, perché a Marina, come in ogni luogo del cuore, la Bellezza c’è ovunque. Nella Natura. Anche nelle cose.

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La piazza, per esempio, l’unica. Quella degli incontri e delle lezioni che apprendevi da tutti. Lesioni di politica, da quanti non sapevano neppure cosa fosse. Di calcio, da coloro i quali la panchina di Herrera era solo una delle tante sul lungomare. E poi di tutto un po’. Erano i vecchi, i genitori dei nostri compagni, che, come i propri, ci sembravano saggi anziani anche se non avevano ancora cinquant’anni. La Bellezza delle vie e dei vicoli, dove giocavano a tutto quel che erano i giochi di quel tempo.

A pallone, anche con una palla di carta confezionata al momento con le pagine dei giornali, facendo le porte da un punto all’altro della via con giacche e maglioni, mentre ci si interrompeva al passare continuo delle auto, pur non tantissime allora. Sui gradini delle scuole e delle case, alla “ batta”, ribaltando un volumetto di figurine di calciatori. Chi ne ribaltava a mazzetti sempre più alti si prendeva le figurine. Ci voleva una mano forte, non necessariamente grande e grossa, ma forte. Ricordo il mio amico Tutù Posca, esile quasi quanto me, che ci batteva tutti, a me generosamente restituendo quelle che perdevo e anzi offrendomi quelle mancanti all’album della Panini.

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Si giocava sempre e si studiava poco, ma era tutto funzionale alla nostra visione del volerci bene, anche quando tardavamo il ritorno a casa e facevano arrabbiare le nostre madri preoccupate degli abiti sporchi, delle scarpe rovinate. E delle sudate che ci avrebbero fatto ammalare, come puntualmente avveniva, con quei febbroni scottanti e il medico di famiglia sempre pronto a venire a casa, anche a sera tardi. E le paure, di tutti noi, tranne che per l’eroico Tutù, delle punture, “ i ghinzioni”, che facevano un male da morire. La Bellezza, nella scuola. Anche quando ci si andava di controvoglia e la si “salava” con l’invincibile metodo, condiviso dalle nostre mamme “ intelligentemente ingenue”, con i padri scienziatamente complici, della malattia all’improvviso. Così, a sera, un po’ di mal di testa, o al ginocchio o al braccio rigorosamente da fasciare fino all’ora della prima campanella e la promessa, mai mantenuta, che avremmo studiato tutta la mattina.

Per non dire della bellezza del cielo. E del mare e delle pinete che lo sorvegliano, dando alla spiaggia che li separa un colore particolare e la frescura d’estate. E tanto profumo all’aria già velata di salsedine. Ecco, quando scendo a Marina, mi pervade questo sentire. E mi inebrio di infinito. Di molteplici infiniti. Il primo la bellezza dei singoli posti in cui rivedo volti e tempi, occasioni( tutte le feste “ di paese” che iniziavano a giugno e finivano con quella della Madonna a mare a luglio), che non ci sono più. Li rivedo anche con con la memoria del cuore in quegli spazi cancellati.

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Chiudo gli occhi un momento e li ritrovo, immacolati di quella presenza umana, incontaminati per la mano che ancora non vi ha messo forza distruttiva. Il secondo, quello del mare. Lo scorro tutto, da quello sul versante del centro dell’antica Marina, che costeggio dal lungomare con lo sguardo sempre su di lui, a quello liberante che accarezzo lungo la mia lunga camminata che da Giovino muove verso Simeri, direzione Crotone insomma. Qui l’infinito si mescola all’infinitezza umana che sento dentro di me. Tanto insistentemente che, a braccia aperte, nella solitudine di quell’incanto, mi metto a correre con queste mie gambe qui. Le gambe che sembravano essersi dimenticate della mia sportività passata.

E, allora, canto e sorrido sulle preoccupazioni, le nostalgie, gli affanni e le delusioni. E riprendo a sognare, che il mondo cambi, che le guerre finiscano, che i figli del mondo siano tutti felici, che le famiglie siano tutte nella pace e nell’abbondanza, che la povertà si annulli.

Che la ricchezza sia per tutti, ché questa che mi trovo davanti agli occhi è per tutti. E di tutti deve restare. Specialmente, quando un falso concetto di proprietà privata porta a costruire lì davanti. Coprendola o lasciandola in concessione di fatto a chi andrà ad abitare in quei palazzoni.

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Sogno che il mare sia davvero di Catanzaro, la mia città bellissima, che dai monti della piccola Sila scende fino a qui per farne una delle sue più grandi ricchezze. Come il mare è per tutte le Città che hanno la fortuna di averlo. Una ricchezza fatta di paesaggio, e di tutto ciò che il mare in soldoni offre, con una prospettiva occupazionale che non hanno neppure le grandi fabbriche del nord. E di cultura, fatta di tutto ciò che la cultura del mare offre, università e musei compresi. Una ricchezza fatta di libertà, quella libertà che il mare offre, quando lo nuoti o se lo vai a navigare nel profondo, curando l’intelligente rapporto tra l’uomo e il pescato, tra l’uomo e la conservazione della biodiversità marina. Una ricchezza fatta di identità sociale( siamo tutti catanzaresi) e di unità progettuale e politica( operiamo insieme, nessuno escluso, persone e quartieri) per fare grande Catanzaro, la più bella Città del mondo. Sogno anche che i sogni non vincono se resteranno soltanto sogni, se ad essi non si daranno le gambe e le braccia per realizzarli, trasformandoli in progetti.

E tutti insieme in una nuova visione della Città. Una visione architettonica da quella onirica. Ma ci vorrebbe un sindaco visionario per questa visione. E coraggioso. Molto coraggioso. E anche trascinante, perché senza un buon Consiglio Comunale che senta con lui, tutto ritornerebbe sogno.

  • intellettuale, ex consigliere

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