di Franco Cimino*
Tra la piazza di Marina, su cui domina ancora la vecchia chiesa parrocchiale e idealmente la mia modesta casa dell’infanzia nell’allora via Trieste, sei, e via Sebenico, 10, dove ho abitato fino ai miei trentasei anni, c’è via Genova. Al centro di questa via “ impera” con dolcezza il vecchio edificio( scuole e convento) delle Suore Maria Immacolata Concezione d’Ivrea. Qui, sotto la guida, anche didattica delle suore, vi ho trascorso tutti gli anni dell’asilo e della scuola elementare. Adesso che le suore non ci sono più l’edificio offre spazi importanti ad alcune associazioni di carità e servizio alla società dei più deboli, specialmente donne abusate, quelle sottoposte a violenza domestica.
E le donne sole o sole con figli piccoli. Di fronte alla parete esterna della Cappella, sul finire di quel complesso, c’è una palazzina “ popolare”, diciamo, di tre piani volendo considerare anche quello sopraelevato. Due piccoli appartamenti uguali a piano. L’uno accanto all’altro, separati da non più di trenta centimetri, mentre solo un metro costituiva il pianerottolo che era, a porte quasi sempre aperte, il “ davanzale” comune dell’incontro dei componenti le famiglie, le madri-casalinghe, rigorosamente, che si scambiavano ricette, preoccupazioni, dolori e speranze. I
l tema era unico. Costante. Sempre quello, i figli. In uno di questi appartamenti, quello a sinistra, entrando nel portone piccolo all’interno del breve cortile, ci stava la famiglia Citriniti. Sì, quella del professore Citriniti, il mitico maestro delle scuole elementari scomparso, non ancora anziano, molti anni fa. Improvvisamente. Eh, il cuore, che allora non dava scampo! Il suo era pure affaticato e dal peso e dalla generosità infinita, come la cortesia e l’educazione per le quali era apprezzato e stimato e con le quali ha concorso ad educare i suoi Franchetto, Maria e Graziana, tre campioni di figli. Sono passati tanti anni, anche se le immagini restano nitide nella mia memoria. In quella palazzina carica di bellezza antica e dei valori più profondi dello stare insieme come comunità pulsante, di quella bellissima gente non c’è rimasto ormai nessuno, solo una delle figlie Chiodo, mi pare.
I Cantisani, marito e moglie, persone dolcissime, i Chiodo, marito e moglie, educatissimi, i Nicoletti, marito e moglie, gentili fino a sentirli quasi aristocratici, i Zoleo, marito e moglie di straordinaria sensibilità e finezza d’animo e di comportamento, non è rimasto nessuno.
L’unica persona che è giunta fin qui, e in piena lucidità di mente e di cuore, fino ai cent’anni di vita festeggiati solo poche settimane fa, è lei, la signora regale di quel palazzo e dell’intera “ruga”.
ECCO CATERINA
Si chiama Caterina, Rina per parenti e amici, marinota autentica anche se quel suo cognome, Rabbini, mi rimanderebbe a una sua origine lontana e… forestiera. Il padre, non ricordo bene se fosse ferroviere, macchinista forse, è morto quasi sul lavoro, a soli trentadue anni, mentre un fratello non tornò mai dalla guerra. Un dolore, questo, per la giovanissima Rina, che si accompagnò, fino al matrimonio, alla dura fatica di sopportarlo, con quella precarietà di mezzi che rendeva impegnativa la vita di quella giovane vedova, la cara madre, impegnata a garantire un futuro dignitoso ai figli.
Ci volle coraggio a quei tempi e amore sconfinato. E tanta, ma proprio tanta, cultura della ruga che nella Marina di allora portava il vicinato a essere il prolungamento della famiglia e la via quello della propria modesta abitazione. Il dolore che colpiva una famiglia era dolore sinceramente condiviso e sostenuto in quel sentirsi tutti fratelli.
È in questo dolore, in quell’esempio di donna straordinaria che fu la madre, nei suoi insegnamenti esistenziali, la più alta cattedra del bene, ma anche in quella cultura della ruga, in quella pedagogia del vicinato, che Rina trasse tutta quella forza e quei valori morali che a noi tutti la portarono a essere quella gran signora che è sempre stata.
Gentile, generosa, educata, rispettosa, aperta e cordiale, sempre pronta all’ottimismo e alla bontà con quel sorriso rassicurante e quella parola sempre pulita, mai cattiva, costantemente protettiva della dignità delle altrui persone. Intelligente come pochi, seppe difendere la lucidità della mente e quello del pensare profondo fino alla fine dei suoi giorni. Il suo carattere schietto e sincero, si nutriva simpaticamente di quella ironia che solo le grandi persone, quelle con tutte le carte in regola, possiedono. Con questa sapeva sdrammatizzare le situazioni, anche le più complesse, e invertire, sollecitando i suoi interlocutori a farlo, il corso delle cose.
Perché la vita, questo mi sembra il suo originale filosofare, è promessa sempre del buono e del bello. E ti stupisce continuamente. Anzi, è lo stupore il suo marchingegno segreto che te la fa non solo accettare, ma vivere. E qui mi fermo perché rischierei di non finire di scrivere di Lei, vieppiù commuovendomi fino alle lacrime. Aggiungo solo una cosa a motivo di questa minacciosa commozione. Anzi, due. La prima, la signora Rina era di un tale portamento regale, che portava tutti ad ammirarla al suo passaggio.
Che era frequente, perché amava la Marina e per gustarne la bellezza, anche delle sue persone, con piacere dal vecchio dovere delle spesa quotidiana ricavava quello di passeggiare per le sue vie e la piazza e il lungomare. E sempre sottobraccio a Maria, l’adorata figlia che dei tre è rimasta qui. La seconda ragione, era che sotto molti aspetti, il viso greco, i capelli ricci e neri, poi diventati bianchi, il portamento e lo stile, oltre che l’eleganza di ogni suo tratto, rassomigliava a mia madre, Franceschina, andata via diciotto anni fa. Incontrare o vedere da lontano la “ regina signora Rina” per tutti questi anni è stato un bellissimo tocco al cuore.
Di quelli che prima di fanno sobbalzare e poi ti portano delicatamente nel mondo dei ricordi e alla più stretta vicinanza a quella mia mamma bellissima. C’è infine una nota melanconica che che da ieri si muove nell’aria. Dice che ora che quella ruga si è definitivamente svuotata di quelle presenze “ genitoriali”, noi tutti, quei ragazzi di allora, siamo costretti a cessare di essere figli. Cosa diventeremo da domani non so. Aspetto che quella nota si faccia musica. Si faccia canto. E lo saprò.
*docente ed intellettuale
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