Il dito puntato in basso e l’Orgoglio dei calabresi senza Pregiudizio

di Alessandro Russo*

Il dito in giù è quello che ti chiede di stare al tuo posto, anzi “al posto tuo”. È il segnale di chi intima di non allargarti, di non pensare che tu, proprio tu, possa fare qualcosa di importante. Ti dice di stare giù e buono chi ti vuole condizionare, chi ti vuole gestire, chi non vuole che il manovratore sia disturbato.

Ma a puntare il dito verso il basso è anche chi crede in niente, chi vuol fare niente, forse perché niente sa fare ed è troppo appagato e compiaciuto dalla sua normalità per accettare che qualcuno con i propri sogni possa disturbarlo.  Il dito in giù è stato per troppo tempo un modo di pensare, una mentalità con cui alcuni calabresi hanno tolto alla maggioranza dei calabresi la possibilità di immaginare un futuro, di sperare in un cambiamento.

È il modo di dire: non fare nulla, stai fermo, vivi nella paura eterna e non disturbare.

Il dito in giù è stato rivolto ai neolaureati, ai giovani e brillanti ricercatori, ad avvocati, ingegneri, architetti, medici, manager che sono dovuti andare via dalla Calabria per lavorare o per evitare di infognarsi nel precariato a vita. Il dito in giù è anche un messaggio continuo a chi è voluto restare per costruirsi qui, in questa Calabria così in fondo allo stivale italiano, una famiglia e la propria esistenza; a chi con fatica riesce a produrre ricchezza e lavoro per tanti, a chi non vuole arrendersi alle logiche mafiose e di potere, e neppure a quelle dell’invidia e del rancore.

*direttore editoriale Gruppo Diemmecom

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